Vorremmo che tutti pensassero da bambini
A volte accade che, del tutto inaspettatamente, ti si presenti un’opportunità che non avresti mai immaginato. E allora la cogli al volo, con entusiasmo e un po’ di timore, sperando di non fare brutta figura. Questa volta l’occasione consiste nel presentare a un’aula particolarmente attenta ed esigente uno spazio urbano importante del nostro quartiere: l’ex Macello.
Come residente di San Donato Regina Pacis, e come persona che da anni si impegna per affrontarne i problemi, vengo contattato da una maestra di scuola primaria. Fin qui tutto nella norma, se non fosse per un dettaglio: il pubblico è composto da due classi terze, una trentina di bambini di scuola primaria. Ed è proprio questo a mettermi più in agitazione di tante riunioni pubbliche con adulti. Il motivo è semplice. Siamo abituati a parlare davanti a platee adulte, con linguaggi tecnici e concetti complessi, ma quando ti rivolgi a dei bambini tutto cambia: devi saper essere chiaro senza banalizzare, semplice ma non superficiale, capace di coinvolgere senza perdere credibilità. E, soprattutto, devi ricordarti che non puoi dare nulla per scontato. Se penso che l’ultima volta che ho spiegato qualcosa di “grande” a dei “piccoli” risale ai tempi in cui le mie figlie erano bambine — e ora una di loro è già laureata e lavora — capisco quanto tempo sia passato. Eppure, nonostante la paura di non essere all’altezza, decido di accettare. Preparo qualche slide, seleziono vecchie foto d’epoca e immagini recenti dell’ex Macello mentre altre mi vengono fornite da amici, organizzo la presentazione cercando di essere chiaro, diretto, comprensibile. Voglio che i bambini capiscano cos’era un tempo quel luogo, cosa rappresenta oggi, e soprattutto immagino cosa potrebbe diventare domani.
Il giorno stabilito entro in classe. Dopo i saluti iniziali, inizio a parlare. I bambini mi ascoltano, curiosi e concentrati, mi interrompono con domande spontanee e intelligenti. Le maestre mi aiutano a tradurre in parole più semplici ciò che a volte rischia di restare troppo tecnico. Le vecchie foto catturano la loro attenzione, quelle più recenti che mostrano il degrado attuale suscitano stupore e dispiacere. Eppure, non si annoiano mai: riconoscono i luoghi, commentano, discutono tra loro. Poi arriva il momento più importante: immaginare il futuro. Chiedo: “Secondo voi, cosa ci potrebbe essere in questo spazio, grande più di sei campi da calcio?” Le risposte mi spiazzano e mi commuovono. Un aeroporto. Un ospedale. Uno zoo. Un parco divertimenti. Una piscina. Idee folli, poetiche, vitali. Solo un bambino — uno su più di trenta — risponde: “delle case”. E lì capisco tutto. Capisco che la fantasia dei bambini non è ancora stata contaminata dalla rassegnazione degli adulti. Che sanno ancora guardare uno spazio abbandonato non come un problema da riempire di cemento, ma come una possibilità. E mi dico che, forse, dovremmo tornare anche noi a guardare la città con gli occhi dei bambini: meno calcoli, meno interessi, più sogni. Perché è da lì che nasce ogni vera rigenerazione. Ma poi, tornando a casa, quella mattina mi è rimasta dentro una riflessione. Se è vero che i bambini sanno ancora sognare, allora significa che da qualche parte, crescendo, noi adulti abbiamo smesso di farlo. Abbiamo smesso di credere che una città possa essere pensata per le persone, e non solo per il profitto. E la colpa, diciamolo chiaramente, non è solo dell’indifferenza generale, ma soprattutto di una classe politica che troppo spesso si dimostra sorda alle voci dei cittadini. Si parla tanto di “partecipazione”, di “rigenerazione urbana”, di “ascolto del territorio”, ma poi, nei fatti, le decisioni vengono prese altrove, dietro porte chiuse, tra chi deve amministrare e chi ha interessi economici da difendere. E così, invece di restituire vita agli spazi abbandonati, li si condanna a nuove colate di cemento. Invece di creare luoghi di incontro, cultura e socialità, si moltiplicano palazzoni senz’anima. E invece di dare ascolto a chi quei quartieri li vive ogni giorno, ci si affida ai palazzinari, a chi considera il territorio non come una comunità ma come un foglio di calcolo e un portafoglio da riempire. La non rigenerazione non è mai un caso: è il risultato di scelte, di priorità sbagliate, di un sistema che preferisce il tornaconto immediato alla visione di lungo periodo. Eppure, basterebbe poco: ascoltare, coinvolgere, avere il coraggio di immaginare una città diversa, più umana, più vivibile. Forse per questo quell’incontro con i bambini mi ha colpito così tanto: perché loro, senza saperlo, mi hanno ricordato che la vera rigenerazione parte dallo sguardo. Dal saper vedere non solo ciò che c’è, ma ciò che potrebbe essere. E finché ci saranno persone — grandi o piccole — capaci di farlo, allora ci sarà ancora speranza per i nostri quartieri e per la nostra città.
Antonio Fracchiolla